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 Il patto di non concorrenza del prestatore di lavoro

Fonte sito web diritto.it

 Il patto di non concorrenza del prestatore di lavoro[1]

 Il patto di non concorrenza del prestatore di lavoro

di Walter Giacardi, Avv.
20 aprile 2020

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Indice.

  1. Il patto di non concorrenza: ratio e caratteristiche generali.
  2. Requisiti di validità.
    • La forma scritta.
    • Il corrispettivo a favore del prestatore di lavoro.
    • I limiti di oggetto.
    • I limiti di tempo.
    • I limiti di luogo.
  3. Nullità e violazione del patto: le conseguenze
  4. Corrispettivo a favore del lavoratore: aspetti contributivi e fiscali. Trattamento di Fine Rapporto.

Il patto di non concorrenza: ratio e caratteristiche generali.

Una volta terminato un rapporto di lavoro, di regola il prestatore resta libero di svolgere altra attività senza limiti di oggetto e di spazio, in proprio o quale lavoratore subordinato presso altra impresa, anche in concorrenza con il precedente datore. L’ex dipendente può utilizzare la professionalità acquisita con il solo limite della correttezza professionale, ovvero senza esercitare concorrenza volta a sviare a proprio vantaggio i valori aziendali dell’azienda di provenienza[2].

L’art. 2125, cod. civ. disciplina la diversa ipotesi in cui, tra il datore ed il prestatore di lavoro, si perfeziona un accordo di “non concorrenza” per il periodo successivo alla cessazione del rapporto.

Il patto di non concorrenza (di seguito, “patto”) postula il contemperamento dell’esigenza del lavoratore di esplicare la propria attività lavorativa e quella dell’imprenditore, diretta a garantire il patrimonio di sistemi e di metodi produttivi che caratterizza l’attività aziendale, valore irrinunciabile per l’azienda, dalla divulgazione e dall’utilizzo da parte di concorrenti. Il patto è valido quando, valutato nel suo complesso, lasci in concreto al lavoratore la possibilità di svolgere un’attività lavorativa coerente con la professionalità acquisita, non gli comprometta la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle sue esigenze di vita e preveda il pagamento di un corrispettivo congruo rispetto al sacrificio che gli richiede[3].

L’art. 2125, cod. civ. riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato e di collaborazione coordinata e continuativa[4], e non può applicarsi ad ipotesi differenti, come ad esempio quella del rapporto di agenzia: quest’ultimo è (di norma) un imprenditore, e ad egli è pertanto applicabile l’art. 2596, cod. civ. sui limiti contrattuali della concorrenza[5].

In linea generale, il patto non è applicabile ai rapporti caratterizzati da para-subordinazione[6], né alla collaborazione autonoma tra l’amministratore e la società[7] o tra cedente e cessionario delle quote di partecipazione ad un’impresa collettiva di cui il cedente sia anche direttore commerciale[8].

Il patto può riguardare sia dipendenti che svolgono mansioni direttive o di alto livello, sia coloro che, pur impiegati in compiti di natura esecutiva (es.: un commesso alle vendite), operino in settori in cui l’imprenditore, in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, possa subire un concreto pregiudizio – in termini di penetrazione nel mercato e di capacità concorrenziale – dalla utilizzazione da parte dei lavoratori medesimi dell’esperienza e delle conoscenze acquisite alle sue dipendenze[9].

Al di là degli elementi essenziali necessari indicati all’art. 2125, cod. civ. il patto non esclude clausole aggiuntive che non siano in violazione in concreto di tali principi[10]: si può ad esempio prevedere l’impegno del lavoratore a comunicare all’ex datore di lavoro la nuova occupazione (società, posizione, mansioni) al fine di consentirgli di verificare l’effettivo adempimento del patto.

Una clausola non ammessa, in quanto nulla per per contrasto con norme imperative[11], è tuttavia quella che riconosce al datore di lavoro la libertà di recesso dal patto alla data di cessazione del rapporto o per il periodo successivo, all’interno del limite temporale della sua vigenza.

L’art. 2125, cod. civ. non consente, infatti, da una parte, che sia attribuito al datore di lavoro il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, così vanificando la previsione della fissazione di un termine certo; dall’altra, che l’attribuzione patrimoniale pattuita possa essere caducata dalla volontà del medesimo. In altri termini, la limitazione alla libertà di impiego del lavoratore risulta compatibile soltanto con un vincolo stabile, che si presume accettato dallo stesso all’esito di una valutazione della sua convenienza, sulla quale fonda determinate programmazioni della sua attività dopo la cessazione del rapporto[12].

La nullità della clausola di recesso a favore del datore di lavoro non determina peraltro l’invalidità dell’intero patto, salvo che non risulti che le parti non lo avrebbero concluso senza di essa[13].

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